Attraversare il mare per cambiare la realtà

Tra aprile e maggio, nell’ambito di un percorso conoscitivo sulle migrazioni, la 2N IDA ha incontrato un ragazzo di origini senegalesi che ha raccontato il suo percorso di redenzione: dall’arrivo nel nostro Paese via mare, fino alla spirale della criminalità e poi una nuova vita dopo aver appreso le arti del giardinaggio. Ecco la sua storia, narrata attraverso le parole di un’alunna della classe.

Ha meno di 30 anni e sa parlare francese, italiano e la sua lingua madre. Pape è seduto davanti alla nostra classe e racconta la sua storia. È senegalese e ha attraversato l’Africa per errore ma ora pensa che sia stata la cosa migliore che potesse capitargli. Pape ci racconta, infatti, che quando  aveva meno di 15 anni seguì il fratello maggiore in un viaggio, senza esser realmente consapevole di dove stessero andando: voleva solo appartenere ad un gruppo, ad una famiglia.  

Suo padre lavorava lontano da casa, Pape viveva con i nonni e la madre veniva raramente a trovarlo: questo aveva causato un sentimento di lontananza da parte sua nei confronti della famiglia. Ecco perché, quando decise di intraprendere questo viaggio, non ci pensò molto. Beh, non c’era molto da pensare: era solo un ragazzino in cerca di un posto da chiamare casa o, almeno, così credo. 

Il loro viaggio iniziò nell’interno dell’Africa: il gruppo era composto da Pape, suo fratello maggiore e alcuni amici del fratello.  L’andamento del viaggio fu disastroso: dai deserti senza una goccia d’acqua, agli incontri con persone di ogni tipo, alcune buone e altre malvagie.  Dopo un lungo viaggio a piedi e in treno, durato circa due settimane, arrivarono sani e salvi al confine, con l’unico ostacolo dell’immenso mare e degli uomini che li avrebbero costretti a lavorare per loro per almeno due mesi. 

Io, a questo punto della sua storia, mi chiedo se in Africa ci siano autorità in grado di gestire questo tipo di situazione perché, secondo il racconto di Pape, sembrerebbero non essercene. In Libia, dopo essere stati “rilasciati”, dovevano lavorare per guadagnare abbastanza denaro per pagare il biglietto della barca: Pape non lo sapeva e l’unico a lavorare era suo fratello. Infine, una volta ottenuti i biglietti, lasciarono la città e ripresero il viaggio. La piccola imbarcazione, se così si poteva chiamare, iniziò il suo viaggio nella notte buia. Pape ci racconta che all’inizio tutto era molto ordinato, la priorità era data a donne e bambini ma, a cinque metri dalla riva, il capitano li abbandonò. 

“Siete stati lasciati soli in mare?” chiede uno di quelli che stanno ascoltando la storia. Pape risponde di sì e tutti rimangono in silenzio. Di certo, nessuno sa cosa dire, siamo tutti terrorizzati. Credo che, escluso Pape, nessuno abbia vissuto un’esperienza di questa portata e credo che nessuno voglia farlo. Ora che mi ricordo, anche un altro mio compagno, che viene dall’Africa, forse ha vissuto qualcosa di simile. 

Pape continua e dice di non ricordare molto di quello che è successo su quella “barca”, se non la gente che ha iniziato a farsi prendere dal panico: alcuni urlavano, altri pregavano e i meno fortunati cadevano e si perdevano nell’oscurità del mare, gli altri non potevano fare nulla per aiutarli. Dare aiuto significava mettere in pericolo la propria vita e, a questo punto, sono sicura che nessuno vuole morire in un modo così brutale. Dopo qualche ora, il gruppo di Pape arriva finalmente in Italia: tutti fisicamente integri ma traumatizzati dai brutali ricordi lasciati dal mare. 

Pape racconta, con un po’ di tristezza, che al suo arrivo il fratello gli aveva suggerito di andare con lui in Francia, visto che lì avevano un lontano parente, ma lui decise di restare in Italia e di farsi una vita qui. Si sofferma a confessare di aver preso quella decisione perché era risentito: pensava che il fratello non avesse mai voluto portarlo con sé nel suo viaggio ma, anni dopo, parlandogli, il fratello gli confessò, invece, di aver fatto tutto il possibile per prendersi cura di lui e proteggerlo. 

A questo punto, Pape descrive la sua vita in Italia come una montagna russa di emozioni: non aveva nessuno qui e si rifugiava dal primo sconosciuto che gli offriva una mano. Per sopravvivere dovette ricorrere allo spaccio di stupefacenti, ma solo perché gli sembrava di non aver altra scelta. Nel corso della sua vita in Italia, è andato in prigione circa sette volte finché non ha incontrato l’avvocatessa Fiore e, con l’aiuto e la forza di Dio, è riuscito a diventare la persona che è oggi. Ammette di avere molte qualità da migliorare ma di essere disposto a farlo per andare avanti.

Dopo quasi due ore, Pape ha finito di parlare, ed è stato davvero difficile per lui. Ma la sua storia mi ha fatto riflettere sulla mia: quando sono arrivata in Italia, pensavo che il mio viaggio fosse stato il peggiore del mondo: 18 ore in aereo con riscaldamento, provviste e intrattenimento sembravano un lusso e, ora che ci penso, lo erano davvero, a confronto con il suo. Rispetto a lui, io avevo mia madre che mi aspettava mentre lui non aveva nessuno. 

In breve, credo che l’immigrazione oggi sia ingiusta: alcuni possono accedervi attraverso canali legali e con relativamente poche difficoltà, mentre altri affrontano pericoli estremi e devono rischiare la propria sicurezza e il proprio benessere. Questo squilibrio nelle opportunità di immigrazione evidenzia le disuguaglianze sistemiche che esistono a livello globale. Posso affermare che fattori come la nazionalità, lo status socio-economico e la geografia determinano in larga misura le possibilità di una persona. Chi nasce in Paesi con risorse limitate o colpiti da conflitti politici e sociali spesso incontra maggiori ostacoli nel cercare una vita migliore altrove. 

Sebbene molti sostengano che siamo in un’epoca in cui il razzismo e il classismo sono in declino, la realtà dimostra invece che questi problemi persistono nella nostra società. Le storie simili a quelle di Pape sono molte e ci si chiede perché, nonostante i nostri progressi, queste ingiustizie persistano. 

La risposta è chiara: il cambiamento inizia da noi stessi. 

Articolo a cura di Maziel Villa Ramirez, classe 2N IDA